Fatale fu per il Napoli e il suo sogno scudetto un Piccolo Faraone. Proprio quando il peggio sembrava passato e la resistenza azzurra stava per issare il suo vessillo in faccia alla Roma. E' andata nella maniera più beffarda possibile, per quanto sull'esito finale ci sia nulla o poco da recriminare. E pensare che gli azzurri la gara l'avevano approcciata alla perfezione, dispensando numeri di alta scuola e almeno 25 minuti di grande intensità. Come con Milan e Fiorentina, sfide guarda caso evaporate nella nuvola nera dei rimpianti e dei rimorsi. Si parte e per il Napoli le cose si mettono come meglio non si poteva sperare: Lobotka (sarà solo la prima delle sue tante intuizioni) manda Lozano a tu per tu con Rui Patricio, Ibanez gli frana addosso e lo stende anche con un calcetto ben assestato. Di Bello - direttore di gara che a fine partita riuscirà nell'ardua impresa di scontentare tutti - non vede e viene richiamato al Var. Giustizia è fatta e Insigne può presentarsi sul dischetto e impacchettare il suo nono centro stagionale. Stavolta il Capitano non ha indugi, la conclusione è chirurgica. E' un momento in cui il Napoli riesce ad esprimere il meglio di sé per la capacità di evitare in scioltezza le uscite dei giocatori della Roma sui portatori di palla azzurri e proporre così fraseggi veloci e buone verticalizzazioni che costringono gli avversari a ripiegare tra affanni e voragini da far tremare i polsi. Insigne e Lobotka sono in grande spolvero: il primo spazia su tutto il fronte d'attacco, il secondo ha un compasso al posto dei piedi e va a chiudere con una insospettabile intelligenza tattica un pericoloso uno contro uno tra Zanoli e Pellegrini, rendendo più agevole il recupero di Rrahmani. La performance dello slovacco sopperisce anche alla serata no di Fabian Ruiz e alla discontinuità di Anguissa, che assicura una buona interdizione ma si perde in qualche appoggio sbagliato di troppo oltre che in un paio di apnee tattiche. I tagli di Lozano a destra sono lama nel burro della difesa romanista e per tutto il primo tempo non c'è la sensazione che i capitolini possano creare particolari grattacapi. La Roma punta molto sui lanci di prima intenzione ad innescare la velocità di Abraham e Zaniolo, ma è un tentativo di accendere il fuoco con legna bagnata. Se l'unica vera chance romanista arriva da calcio piazzato (peraltro con una botta apparentemente innocua di Pellegrini che Osimhen devia all'incrocio), un motivo ci sarà. Si va al riposo e sono tutti contenti. La Roma è stata ingabbiata, il Napoli è nettamente di altra pasta rispetto a quello demolito dalla Fiorentina.
Ma è nella ripresa che gli azzurri si trasformano in brutto anatroccolo, facendo emergere tutti quei limiti di mentalità e tenuta nervosa che ne hanno ciclicamente rallentato la corsa verso il titolo. Anguissa tenta la gloria personale, Smalling gli dice che non è il momento. Poi si fa male Lobotka: la sua noia muscolare, inopinata e dolorosa, decide anticipatamente la sfida e chissà che non sia il crocevia pure della stagione. Fatto sta che da quel momento il Napoli non è più lo stesso. Spalletti piazza nel ruolo di play Fabian, già impalpabile di suo, e getta nella mischia uno Zielinski che in partita non ci entrerà mai se non per una bordata che per poco non fa fuori Rui Patricio. Troppo poco. Gli azzurri cedono il dominio del centrocampo, non palleggiano più, perdono metri, convinzione e lucidità. Le loro gambe sono molli, le idee spariscono. E la Roma fa un po' quello che vuole, gioca in ampiezza e tiene il Napoli basso. Il primo campanello d'allarme lo fa suonare Abraham, che getta alle ortiche un traversone al bacio di Karsdorp che a destra è una autentica furia. I giallorossi la mettono anche sul rodeo e per un Napoli già in bambola diventa persino difficile reggere un urto psicologico così impegnativo. Un litigio tra Lozano e Zalewski è la molla che fa scattare pochi secondi dopo un atto di giustizia sommaria di Mancini che rifila una gomitata in pieno volto ad Osimhen: il romanista viene graziato, non Insigne che aveva chiesto spiegazioni e incappa nella severità spocchiosa di un Di Bello in confusione totale. E' una partita a scacchi quella tra Spalletti e Mourinho: il tecnico azzurro prova a porre una toppa con l'ingresso di Demme (fuori Fabian), il quale ci mette tanta buona volontà ma non può proporsi sugli standard di Lobotka. Mou risponde puntando sulla qualità di El Shaarawy a sinistra al posto di Zalewski. Forze fresche anche nel centrocampo a due giallorosso: Veretout va a fare coppia con Mkhitaryan e il dinamismo ospite aumenta di visibilità. Il Napoli continua ad essere prigioniero delle sue paure, il timore della beffa è angosciante e diventa moto perpetuo. Il proverbiale braccino corto di Spalletti fa il resto. Sì, perché l'ex trainer giallorosso, avvertendo le ansie della sua squadra, sceglie di alterarne l'assetto e di passare alla formula dei tre centrali con Juan Jesus al posto di un Insigne che non ne ha più. Una sorta di autoflagellazione nonché un invito alla Roma ad osare. Mourinho può così calare un pauroso quadrifoglio offensivo come logica contromossa: via il 3-4-1-2, spazio al 4-2-4 con Afena-Gyan che agisce in coppia con Abraham, Pellegrini si allarga a sinistra (supportato addirittura da El Shaarawy nelle vesti di terzino di spinta) con Perez a destra (fuori Mancini). E' una piccola lezione tattica che il portoghese impartisce ad uno Spalletti spaventato e stordito. La fluidità della manovra romanista si lascia apprezzare, come il recupero palla, la ripartenza veloce e la capacità di arrivare facilmente sul fondo e trovare la superiorità numerica. E il sigillo del Piccolo Faraone è una condanna meritata per gli azzurri, traditi nella circostanza dalla timidezza di Zielinski, che si lascia sfilare davanti il cross basso di Pellegrini, e da Juan Jesus, la cui uscita avventata manomette la retroguardia che perde i suoi punti di riferimento. La Roma chiude addirittura in avanti e bisogna pure ringraziare che l'overtime, per quanto lungo, volga al termine. Altri punti persi al "Maradona", altre lacrime versate come quelle di Insigne che più di tutti non riesce a darsi pace. Si volta pagina perché si sa che finché c'è vita c'è speranza. Ma chi di speranza vive, spesso di speranza muore.
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