Quella conquistata il 17 giugno 2020 è stata la sesta Coppa Italia che il Napoli ha messo in bacheca, ciascuna ha segnato una epoca e viene associata ad altri eventi, quasi tutti speciali, altri purtroppo tristi. La bacheca di un club come il Napoli non è che grondi trofei, ma quelli che occupano gli scaffali sono stati conquistati con sudore e sacrifici, anche con imprese contro avversarie sulla carta molto più forti. Come successe per la prima Coppa Italia, nel 1962, quando il Napoli si rese protagonista di un record che, con ogni probabilità, non sarà mai battuto: aggiudicarsi il trofeo pur militando in serie B. Era un buon Napoli che, però, stentava a decollare in campionato, così la società di patron Achille Lauro, un vero Comandante rispetto a qualcun altro che decenni dopo si sarebbe fregiato di tale appellativo, decise di affidare la squadra ad un giovane tecnico che guidava la Scafatese dopo essere stato una stella in maglia azzurra: Bruno Pesaola. Con il Petisso in panchina, la squadra svoltò vincendo il campionato e soprattutto andando a giocarsi la finale di Roma contro la Spal. Una carovana di tifosi partì alla volta della Capitale, Corelli portò il Napoli in vantaggio ma fu quasi immediato il pari di Micheli. Tutto in poco più di un quarto d’ora, poi il ritmo scemò ma non il carico emotivo con il Napoli che andò ad un passo dal ritornare in vantaggio su rigore con Corelli che si fece ipnotizzare da Patregnani. Mancavano poco più di dieci minuti al ’90 quando Ronzon trovò il guizzo giusto regalando al Napoli una insperata e incredibile Coppa Italia, una squadra della cadetteria che, contrariamente ai pronostici, arrivò ad aggiudicarsi la competizione. Un miracolo sportivo targato Petisso.

La seconda Coppa Italia arrivò nel 1976, nell’era Vinicio, anche se nella finale contro il Verona, travolto 4-0, a guidare la squadra ci furono Rivellino (uno dei protagonisti in campo di quel Napoli che vinse la sua prima Coppa Italia) e Delfrati. Il ciclo di ‘O Lione era arrivato al capolinea e si chiuse anzitempo, ma si dice che quel successo in coppa fu figlio dell’allenatore italo-brasiliano che rese il Napoli una squadra di vertice. L’anno prima, nel 1975, gli azzurri disputarono un campionato straordinario offrendo un gioco propositivo e spettacolare ispirato al calcio olandese. Quella squadra faceva tanto parlare di sé accreditandosi come una candidata al tricolore, tant’è che, nel mese di aprile, andò a giocarsi lo scontro al vertice in casa della Juventus. Ci si stava avviando verso un pari, quando nei minuti finali l’ex Altafini regalò la posta in palio (che valeva due punti) alla Vecchia Signora meritandosi l’appellativo di Core ‘ngrato. Arrivò secondo il Napoli, mai come quella volta andò davvero vicinissimo a conquistare il primo scudetto in un anno pieno di emozioni. L’anno successivo, patron Ferlaino fece il botto di mercato acquistando Beppe Savoldi, il quale non deluse le aspettative segnando la bellezza di 21 gol stagionali. In campionato, dopo un’ottima prima parte, si iniziarono a perdere troppi punti per la corsa al vertice, che fu una volata a due tra la Juventus di Parola e il Torino di Radice, con i granata che, con un finale thriller, spodestarono i cugini bianconeri dalla vetta conquistando il primo scudetto dopo il Grande Torino e l’ultimo della gloriosa storia del club. Il successo per il Napoli arrivò in Coppa Italia, non ci fu storia nella finale contro il Verona di mister Valcareggi, che qualche anno prima era il timoniere dell’Italia che nei mondiali del ’70 in Messico passò alla storia per “la partita del secolo” contro la Germania in quel memorabile 4-3. Con un perentorio 4-0 il Napoli si impose sugli scaligeri, una vittoria firmata dalla doppietta di Savoldi, dalla firma di Braglia e l’autorete di Ginulfi. Quella squadra aveva valori importanti con Burgnich e Bruscolotti in difesa, Juliano a centrocampo, Savoldi in attacco. Fu proprio capitan Juliano, napoletano di San Giovanni a Teduccio, ad alzare al cielo la Coppa Italia.

La terza Coppa Italia arrivò nell’anno spettacolare, in quel magico 1987, quando con un certo Diego Armando Maradona, il 10 maggio, il Napoli festeggiò il suo primo scudetto. Quella squadra guidata da Ottavio Bianchi fu un caterpillar, oltre a laurearsi campione d’Italia, conquistò anche la Coppa Italia che, però, non si giocò a Roma in gara secca. Ci fu prima l’andata a Napoli, dove gli azzurri già misero una seria ipoteca sul titolo imponendosi con un tris firmato Renica, Muro e Bagni. Si sapeva che il ritorno a Bergamo sarebbe stato solo una formalità e, per dare una netta dimostrazione di forza, anche in terra orobica gli azzurri fecero bottino pieno con un altro grande protagonista di quell’indimenticabile epopea come Bruno Giordano. Era un Napoli da impazzire, la squadra da battere, una macchina perfetta, poi dopo quegli anni d’oro iniziò il declino. Proprio l’anno precedente alla prima retrocessione in serie B dell’era post-Maradona, nel 1997, gli ultimi momenti di gloria arrivarono proprio dalla Coppa Italia. Il Napoli di Gigi Simoni eliminò la Lazio ai quarti e l’Inter in semifinale (vi ricorda qualcosa?), anche in questa competizione la finale sarebbe stata di andata e ritorno, l’avversaria era il Vicenza di Guidolin. Ma divampò il caso Simoni proprio prima della finale, il tecnico di Crevalcore si era accordato con l’Inter di Moratti dopo aver aspettato invano dei segnali da Ferlaino, il quale, indispettito da quella vicenda, esonerò l’allenatore affidando la squadra a Montefusco. L’andata, al San Paolo, si chiuse con la vittoria degli azzurri grazie al gol di Pecchia, poi al ritorno la rete di Maini prolungò la gara fino ai supplementari con i biancorossi che, in due minuti, chiusero i giochi con Rossi e Iannuzzi. Un dolore incommensurabile per il sottoscritto, riviverlo è come riaprire una ferita. A otto anni, non avevo mai avuto modo di esultare per una finale vinta, il fatto di esserci andato così vicino per poi subire quell’amarezza fu terribile per il cuore di un tifoso bambino. Poi iniziarono le retrocessioni, gli anni in cui si lottava per non retrocedere in serie C1 fino ad arrivare al fallimento. Sperare di giocare una finale era diventata ormai pura utopia.

Successe nel 2012, la prima finale per il Napoli di De Laurentiis. La squadra allenata da Mazzarri, che aveva portato il Napoli in quella Champions che mancava dai tempi di Maradona vivendo notti magiche contro le grandi d’Europa, riuscì ad approdare nella finale di Roma, di nuovo gara secca nella Città Eterna. L’atmosfera era quella delle grandi occasioni, anche perché si affrontava la rivale di sempre, la Juve, fresca reduce dalla vittoria del campionato senza subire neanche una sconfitta. Era famelica e con la bava alla bocca quella Juve di Conte, che però a Roma giocò una partita sottotono con il Napoli che, sin dalle prime battute, sembrò più in palla. I gol arrivarono nella ripresa, prima il rigore trasformato da Cavani e poi la sentenza di Hamsik, una gara che fu anche l’ultima in azzurro per un giocatore tanto amato come Lavezzi che si accomiatò con una vittoria prestigiosa e tante lacrime versate abbracciando i tifosi. Da brividi il momento in cui capitan Cannavaro, napoletano doc che aveva accettato di scendere in serie B per amore della maglia, alzò la coppa al cielo. Festa grande in città con i giocatori che fino all’alba attraversarono le vie di Napoli su un pullman scoperto.

Dopo due anni, nel 2014, il Napoli conquistò di nuovo il pass per Roma per la finale contro la Fiorentina di Montella. Era tutto pronto, già dalla vigilia si sentiva l’adrenalina tipica di un appuntamento tanto atteso. Poi, a poche ore dal fischio d’inizio, si registrò l’agguato ai danni di un gruppo di tifosi del Napoli che costò la vita a Ciro Esposito, il quale fu trasportato subito in ospedale spegnendosi dopo poco più di un mese. Circolò la notizia (poi smentita) della morte immediata, a quel punto fu in dubbio proprio lo svolgimento della partita. Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Hamsik, capitano del Napoli, che andò a parlamentare con il capo ultrà della curva partenopea per arrivare ad una decisione che non portasse a conseguenze spiacevoli per l’ordine pubblico. La partita iniziò con un notevole ritardo e subito si vide in campo un Napoli superlativo che sembrò chiudere la pratica in pochissimi minuti con la doppietta di uno scatenato Insigne. Quell’inizio a spron battuto, probabilmente, fu la causa di un calo verso la fine della prima frazione e ne approfittò la Viola che accorciò le distanze con Vargas. La ripresa fu una sofferenza per gli uomini di Benitez che giocarono anche in inferiorità numerica l’ultima parte per l’espulsione di Inler, la Fiorentina si divorò in modo clamoroso il pari con Ilicic e, nei minuti finali, ci pensò Mertens a chiudere i giochi regalando la quinta Coppa Italia al Napoli. A differenza di due anni prima, anche per l’apprensione circa le condizioni di salute di Ciro Esposito, i festeggiamenti furono molto moderati.

Dopo i due anni di Benitez, ci fu il triennio sarriano e, con il tanto idolatrato tecnico toscano, il Napoli non s’è neanche avvicinato a giocare una finale di Coppa Italia, lo stesso dicasi di Ancelotti, il successore di Sarri, che pur godendo di una certa immunità alle critiche alla luce del suo pingue curriculum, ad un certo punto anche un santo avrebbe perso la pazienza se fosse durato anche solo un’altra settimana il suo interregno all’ombra del Vesuvio. Così arriviamo a questa Coppa Italia, la sesta, diversa da tutte le altre, il primo trofeo assegnato dopo la quarantena per il coronavirus che ha bloccato il calcio per più di tre mesi. Per il valore simbolico che aveva e che avrà nel tempo, si trattava di qualcosa in più di una Coppa Italia come quella che si assegna ogni anno. A contendersela c’erano Napoli e Juve, il teatro era sempre l’Olimpico di Roma, ma stavolta senza spettatori, in una atmosfera desolante e surreale. Se l’è aggiudicata il Napoli ai rigori, dopo 90’, il regolamento non prevedeva i supplementari, in cui avrebbe meritato molto di più per le occasioni create rispetto ad una Juve imbolsita. Un altro napoletano, Insigne da Frattamaggiore, tornava ad alzare al cielo la Coppa Italia con la fascia al braccio. Anche per il Napoli è stato un trofeo dal sapore speciale e che porta il nome di Gennaro Gattuso, che aveva rilevato una squadra in zona retrocessione e se qualcuno avesse pronosticato la vittoria della Coppa Italia avrebbero chiamato gli infermieri per un ricovero urgente. Invece, quel Napoli, dopo aver eliminato la Lazio ai quarti e l’Inter in semifinale (come nel 1997 con Simoni), ha battuto anche la Juve in finale, una squadra, quella bianconera, sulla carta nettamente superiore con la stella Cristiano Ronaldo e in panchina Maurizio Sarri, quel tecnico che a Napoli diceva di voler conquistare il palazzo prima di entrarvi con le chiavi in mano. Per la serie, se non riesci a prenderti il potere con le tue forze allora fatti soggiogare da esso. Che poi si perda ogni forma di coerenza e credibilità, questo passa in secondo piano. Un po’ come un grillino che, dopo averne dette di ogni ad un piddino, chiamato a rispondere dell’imminente alleanza con quella forza politica tanto avversata, risponde: “Era un momento differente, no?”.

La Juve di Sarri, poi, aveva già perso una finale, quella di dicembre in Supercoppa contro la Lazio, si pensava che non avrebbe mai potuto perderne un’altra, e tra l’altro contro un Napoli da cui, in campionato, era già stata subita una sconfitta netta. Gattuso, invece, ha preparato la gara in modo impeccabile dal punto di vista tattico, in cuor suo sapeva che qualcosa di grande sarebbe successo nella notte romana ed era pronto a dedicare il suo primo trofeo da allenatore a sua sorella Francesca, scomparsa da pochi giorni, alla quale era legatissimo. Anche se la vita deve andare sempre avanti, anche in onore delle persone che ci lasciano, ci sono dei lutti dai quali non ci si riprenderà mai del tutto, come quando si perde una sorella. Proprio per questo Gattuso aveva bisogno di vivere una notte da eroe, portato in trionfo dai suoi giocatori ai quali aveva ridato autostima e motivazioni dopo averli conosciuti stanchi e sfiduciati a causa di una gestione scellerata. Una Coppa Italia che ha dato senso ad una stagione che stava per essere considerata la peggiore della storia in rapporto alle aspettative, poi Ringhio Gattuso è entrato nel cuore e nella mente dei suoi giocatori facendogli credere che avrebbero potuto puntare ad arrivare dove in quel momento, con la necessità di arrivare a quota 40 punti in campionato per evitare spiacevoli sorprese, nessuno si sarebbe mai immaginato.

Tutta la Coppa Italia è stata targata Gattuso, e meno male, altrimenti con il suo predecessore molto probabilmente non sarebbero stati superati neanche gli ottavi contro una squadra di categoria inferiore come il Perugia. Nessuno avrebbe mai immaginato di eliminare la Lazio. Nessuno avrebbe mai immaginato di andare a vincere in casa dell’Inter con il pubblico e di reagire da grande squadra al ritorno con i nerazzurri subito in vantaggio in un San Paolo deserto. Nessuno avrebbe mai immaginato di infliggere un ulteriore dispiacere alla Juve di CR7 in finale, ma il Napoli di Gattuso ha dimostrato di essere capace di tutto. Perché la stagione della sesta Coppa Italia sarà ricordata anche per la partita in cui il Barcellona ha tremato al San Paolo festeggiando un pareggio come una vittoria, a differenza di quando qualche anno prima ci si accontentava di giocare un grande calcio per un tempo contro il Real Madrid per poi essere sommersi di gol.

Sezione: Storie / Data: Mar 30 giugno 2020 alle 17:13
Autore: Maurizio Longhi
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