29 aprile 1990. Una giornata indimenticabile per chiunque faccia i conti con le insidie dell’età, e certamente da raccontare con l’orgoglio e la nostalgia di chi ha avuto la fortuna di esserci con un proprio protagonismo e un proprio senso di appartenenza. Sono stati i migliori anni della vita di un tifoso, quelli di un giardino dei sogni sterminato, senza latitudini o longitudini. La favola più bella, una poesia che i calciatori trasformarono in musica. Non solo sul campo. Trentadue anni fa il secondo ed ultimo scudetto del Napoli. Lazio ko, Baroni l’eroe gregario e silenzioso di quel pomeriggio. Un San Paolo da cartolina (oltre 70mila spettatori) ma ancora martoriato dai lavori per gli imminenti Mondiali di calcio. Agli azzurri, che chiudevano il campionato a quota 49, sarebbe bastato un pari, nonostante la sfuriata del Milan sul povero Bari (4-0): i rossoneri si fermarono infatti a 47, con la vittoria che all’epoca valeva soltanto due punti. Inesistente la reazione dei biancocelesti di Beppe Materazzi, poco propensi a rovinare la festa partenopea.

Quello scudetto fu soprattutto uno sfizio. Una ripicca o un regolamento di conti che dir si voglia. Gli azzurri il loro tabù lo avevano sfatato tre anni prima, inaugurando con Corrado Ferlaino un quadriennio di vittorie e di scalata irrefrenabile al potere. Ma quel primo maggio del 1988 bruciava ancora nel corpo e nella mente di una città a cui era stato rifilato un farmaco velenoso con un carico eccessivo di tossicità. Due anni dopo, il Napoli si riprendeva finalmente quello che gli spettava e che troppi fattori avversi gli avevano strappato. Il Milan, nonostante il suo spirito onnivoro che provava a coniugare innovazione organizzativa, influenza politico-federale e dispotismo mediatico, non sembrava più quel santuario inattaccabile. Fu la nemesi perfetta. Il momento di liberazione collettiva che sciolse anche la creatività di tanti tifosi nell’ideazione di striscioni ironici e caricaturali verso il “nemico” rossonero. La genialità di un popolo si prendeva beffe del gigante caduto. Nel mirino entrarono tutti: Berlusconi, Ramaccioni, gli olandesi di Arrigo Sacchi. Tutti. In quei festeggiamenti tra gioia e folklore, c’era l’esercizio candido e coerente di una vera napoletanità nient’affatto parcellizzata, che si nutriva del patto tra tutte le anime della città, popolari e borghesi. E poi c’era un altro aspetto da non trascurare. In troppi avevano dimensionato il primo scudetto azzurro a fenomeno eccezionale, unico e quindi non replicabile. Lo ripetevano tanti opinionisti e addetti ai lavori da salotto, poco consapevoli della variabilità di certi equilibri. Qualcuno affermava anche con una certa sicurezza che ci sarebbero voluti altri “60 anni” per assistere al bis azzurro. Giovanni Agnelli, con l’ironia anche un po’ irridente che lo distingueva, aveva etichettato gli scudetti partenopei come “superfluo divenuto indispensabile per chi non ha”, o come titoli “in libera uscita”.

Punture di spillo che, a ben vedere, tradivano paura e considerazione per una realtà che non ne voleva sapere di stendere il tappeto rosso davanti alle passerelle delle solite grandi. Che esigeva autonomia e rispetto, che reclamava dignità. Il Napoli incarnava per certi versi il riscatto sociale di un Sud che, almeno nel calcio, non si rassegnava all’idea di rappresentare un mero optional per il sistema. E poi c’era Napoli, uno spettacolo quel giorno: bella, spumeggiante, autoritaria e strafottente. Chi ha respirato da vicino quell’entusiasmo lo sa: un mare d’azzurro dal Vomero alla Sanità, da Secondigliano alla zona orientale passando per il lungomare ed il centro storico. Camminare per la città, sciarpa al collo e in compagnia degli amici di sempre con cui condividere la stessa passione, non costava fatica. Era, anzi, eccitante. La scelta migliore che si potesse fare per stare in pace con la vita e rifugiarsi in un attimo di eternità. Il tutto mentre le nave con a bordo gli azzurri ed il presidente Ferlaino salpava da Pozzuoli per una nottata di bagordi e di follie. Stabile e collaudata la formazione presentata da Albertino Bigon nel corso del campionato, con Giuliani tra i pali, Ferrara e Francini sulle corsie laterali, Renica (quello che si chiamava “libero”) e Corradini (o Baroni) al centro della difesa. Centrocampo con Alemao (fisso davanti alla difesa), Crippa e De Napoli, reparto avanzato affidato alle invenzioni di Maradona ed alla concretezza di Careca e Carnevale. Ma la forza del Napoli di allora la facevano anche i cosiddetti rincalzi, che poi tanto seconde linee non erano. Tra loro c’erano Fusi, Massimo Mauro, il giovane Zola.

Il Milan prese male l’addio a quel tricolore sfumato al fotofinish dopo un testa a testa appassionante. E mise in campo – per chi ha buona memoria – tutta la sua potenza di fuoco mediatica (la stessa che qualche anno dopo sarebbe servita a Silvio Berlusconi per scopi politici), parzialmente riequilibrata dalla Rai del napoletano Ghirelli, in un sistema di pesi e contrappesi nel quale il Napoli riusciva anche politicamente a difendersi bene. Ma le accuse e le recriminazioni che arrivavano a getto continuo da Via Turati, non facevano altro che dilatare il senso di rivalsa e di appagamento dei tifosi azzurri. Certo è che quel Milan capeggiato da Arrigo Sacchi era una macchina da guerra, più spettacolare del Napoli e davvero bello da vedere. Gli azzurri, che in trasferta trionfarono solo cinque volte, indirizzarono il loro destino in casa con 16 gare vinte e soltanto una pareggiata con la Sampdoria. Un piccolo contrappasso, se si pensa allo scudetto rossonero del 1988, che il Napoli vide sparire irreversibilmente quel famoso 1 maggio nonostante avesse opposto ai rivali una schiacciante superiorità dal punto di vista del gioco e della costanza nel percorso in campionato. Piccole scorie di una vecchia rivalità che ha infiammato il calcio nostrano negli anni ’80: era il duello tra il gioco a zona e quello all’italiana, tra Careca e Van Basten, tra Maradona e Gullit, tra l’imprevedibilità creativa dei partenopei e gli schemi didattici e maniacali di Sacchi, tra le visioni di calcio opposte che caratterizzavano Silvio Berlusconi e Corrado Ferlaino, tra Nord e Sud. Era la sfida perfetta. Grazie a quel tricolore, il Napoli partecipò alla Supercoppa dell’anno successivo, asfaltando la Juventus 5-1 al San Paolo. Per gli azzurri è stato l’ultimo trofeo prima del lungo digiuno interrotto dal trionfo romano di Coppa Italia del 2012 contro gli stessi bianconeri. Il Milan sarebbe durato di più, è vero. E avrebbe vinto tutto quello che c’era da vincere, in Italia e in Europa. Ma è stato tutto troppo bello. E degno di essere vissuto.

Sezione: Editoriale / Data: Ven 29 aprile 2022 alle 14:00
Autore: Stefano Sica
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